Lecce (venerdì, 27 giugno 2025) — C’è un busto che affiora, senza rumore, dai fondali di Leuca. Non è una metafora – anche se potrebbe benissimo esserlo – ma un frammento di statua bronzea, di quelli che raccontano più con l’assenza che con la forma: un torso nudo, maschile, senza testa né braccia, emerso dal silenzio di quel tratto di mare dove l’Adriatico smette di essere Adriatico e inizia a pensarsi come Ionio.
di Valeria Russo
Lo hanno trovato gli archeologi dell’Università del Salento, che da anni perlustrano con metodo e pazienza il fondo di un mare che, a differenza di noi, non dimentica. Lo fanno sotto l’egida del progetto M.Ar.E.A., mappatura archeologica dei fondali pugliesi, che già nel nome ricorda qualcosa di ampio, profondo, e, come tutto ciò che ha a che fare con la cultura, bisognoso di lentezza.
È accaduto il 19 giugno, e il ritrovamento – centimetro più, centimetro meno – è grande quanto una finestra: 105 per 65. Ma su quel rettangolo di bronzo si aprono, come dentro una finestra appunto, rotte antiche, storie mute, transiti di uomini e di dèi. La scienza non vive di poesia, ma qui anche le misure parlano con dolcezza.
Rita Auriemma, che guida il progetto con una calma che sa di sapienza, ha commentato così: “Questo frammento ci parla di storie perdute e rotte sommerse”. È una frase da scolpire su qualche targa, magari in bronzo, da lasciare proprio lì dove il frammento è stato trovato. Perché è vero: il mare nasconde, ma non cancella.
A volerci credere, è come se ogni tanto restituissi qualcosa per metterci alla prova. Per vedere se siamo ancora capaci di stupirci, di rispettare, di ascoltare. La storia del torso non nasce oggi: era il 1992 quando un sub, Francesco Boaria, segnalò per la prima volta che in quei fondali c’era qualcosa. La Soprintendenza ci mise mano nei due anni successivi. Ora, dopo trent’anni di quiete e sale, si torna lì. E si scopre che qualcosa è ancora vivo.
Anche il corpo a corpo tra archeologi e acqua è fatto con grazia: rilievi fotogrammetrici, operazioni lente, mani esperte. I reperti – il torso e alcuni altri frammenti, forse un panneggio – sono ora in cura nel laboratorio di desalinizzazione del Museo del Mare Antico di Nardò, che suona come un luogo inventato da Calvino. Solo dopo sapremo se quel corpo era già noto o se è uno sconosciuto che torna alla luce.
A sorvegliare le operazioni c’erano la Guardia Costiera e il Nucleo Subacqueo di San Benedetto del Tronto. E anche qui, qualcosa di poetico: il mare che unisce l’estremo nord dell’Adriatico con il suo sud, come se gli uomini – sotto la superficie – riuscissero a collaborare meglio che in superficie. Il comandante Perrotti della Capitaneria di Gallipoli ha lodato il lavoro dei sommozzatori, quelli che ogni giorno “garantiscono la sicurezza delle operazioni e la tutela dell’ambiente marino”. Come dire: c’è chi scende davvero in profondità, mentre noi, da terra, restiamo spesso impigliati tra due notizie e tre lamentele.
Questo torso, nudo e silenzioso, è una buona notizia. Non solo perché arricchisce il nostro patrimonio archeologico, ma perché ci ricorda che c’è un fondo – sempre – da cui qualcosa può tornare a galla. A volte, un’opera d’arte. A volte, un’idea. A volte, la voglia di custodire ciò che abbiamo. Anche se lo abbiamo dimenticato.
Last modified: Giugno 27, 2025