Lecce (mercoledì, 25 giugno 2025) — La mano posata sulle pietre millenarie del Muro del Pianto, lo sguardo rivolto al cielo, il corpo avvolto nei colori d’Israele: Benjamin Netanyahu prega. O almeno così dice. Il cuore, assicura, è tutto per la “salute del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump”.
di Valeria Russo
Ma a guardarlo bene, a seguirne i passi, i gesti, gli sguardi sempre più affilati e sospettosi, viene il sospetto che quella preghiera sia meno spirituale di quanto sembri. Più che un atto di fede, un gesto di strategia. Un grazie in codice, rivolto a chi — con la sua sola presenza nello Studio Ovale — ha rappresentato per il premier israeliano non tanto la provvidenza, quanto una scialuppa politica in un mare di scandali e processi.
La verità, per quanto scomoda, è fin troppo chiara: Netanyahu ha bisogno della guerra. E la guerra, come ben sanno i registi del potere, ha bisogno di nemici visibili, minacce permanenti e consenso da ricostruire. Nulla funziona meglio di una crisi permanente per blindare un governo che barcolla. Le opposizioni tacciono quando cadono le bombe. Le proteste si sciolgono quando il nemico è alle porte. Lo sa la storia, lo sa Israele, lo sa — perfettamente — Netanyahu.
Il 7 ottobre 2023, con il massacro compiuto da Hamas, è crollato il mito dell’infallibilità dei servizi segreti israeliani. Migliaia di israeliani in piazza hanno chiesto le dimissioni dei vertici della sicurezza. Il governo sembrava vacillare. E allora, come accaduto tante volte nei suoi 16 anni (più o meno ininterrotti) al potere, Netanyahu ha rispolverato la sua arma più efficace: la guerra. Una lunga campagna militare, giustificata certo dall’orrore dell’attacco subito, ma comoda per riprendere in mano la narrazione del potere. E soprattutto per risalire nei sondaggi. Funziona sempre.
Ha funzionato anche questa volta. A maggio 2024, dopo mesi di bombardamenti su Gaza, operazioni speciali contro Hezbollah e raid in Libano, Netanyahu torna a essere il premier preferito dagli israeliani. Il consenso cresce ogni volta che cade una testa: il comandante delle Brigate al-Qassam, il leader politico di Hamas, persino Hassan Nasrallah. Ogni “successo” militare è anche un dividendo politico. E l’operazione più chirurgica, quella contro Hezbollah del settembre 2024, con droni e cercapersone esplosivi, porta il consenso al 38%. Un’apoteosi macabra.
Nel frattempo, Trump torna alla Casa Bianca. E, nonostante le sue dichiarazioni pacifiste, bombarda l’Iran, rischiando un conflitto regionale. Netanyahu sorride. Ha ritrovato un alleato che non gli chiede conto dei crimini di guerra, che non parla di diritti umani, che non frena le colonie né ostacola l’uso della forza. Un alleato che — come lui — sa bene quanto la guerra sia utile a far dimenticare tutto il resto.
Ma c’è qualcosa di più profondo e inquietante in questo schema, che va oltre le bombe e i sondaggi. Ed è il modo in cui la paura, l’emergenza e la guerra annientano il pensiero critico. L’elettore impaurito non ragiona: obbedisce. Il cittadino informato discute, ma il suddito traumatizzato applaude. È il popolo educato alla minaccia permanente, tenuto nell’ignoranza delle alternative, che permette a un uomo solo di restare in sella per decenni.
Ed è qui che la questione non è più solo israeliana. È universale. Perché ogni potere che si nutre della guerra si nutre anche della disattenzione, dell’ignoranza, del consenso facile ottenuto con il sangue altrui. E allora non importa più se la guerra è giusta o ingiusta. Basta che sia utile. Basta che funzioni. E finché funzionerà, Netanyahu pregherà al Muro, ma con un occhio ai sondaggi e l’altro alle mappe militari.
In questa storia, il cinismo non è un’ipotesi: è il metodo. L’ideologia, un accessorio. La religione, un palcoscenico. Il potere, l’unico fine. E chi paga il prezzo? Sempre gli stessi: i civili. Palestinesi, israeliani, libanesi, iraniani, uomini e donne qualunque che non vedranno mai le stanze del potere, ma ne sentiranno per sempre le esplosioni.
Last modified: Giugno 25, 2025