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La bestia e la cura

Lecce (domenica, 29 giugno 2025) — C’è una domanda che ritorna, ogni volta che un topo di laboratorio prende la sua ultima boccata d’aria in nome della scienza: si può salvare una vita umana sacrificandone un’altra?

di Valeria Russo

La risposta – che piaccia o no – è ancora sospesa, penzolante tra i microscopi dei ricercatori e le lacrime degli animalisti, tra le gabbie dei centri sperimentali e i letti d’ospedale dove un nuovo farmaco può significare una seconda possibilità.

La sperimentazione animale, insomma, è una di quelle faccende in cui la coscienza inciampa. Perché da un lato ci sono le cure che salveranno qualcuno che ami. Dall’altro, creature vive, senzienti, sottoposte a test per capire se quella cura è abbastanza sicura da essere tentata su di noi.

Eppure, per quanto si invochino alternative (che esistono, e crescono, ma ancora arrancano), non si è ancora trovato un organismo artificiale capace di replicare la complessità di un corpo vivo. E quindi – con dolore, con cautela, con mille garanzie – si continua.

Del resto, l’essere umano e l’animale non sono poi così diversi. Abbiamo impiegato milioni di anni a evolverci insieme, condividiamo organi, apparati, perfino i timori ancestrali. Non è solo una questione di somiglianza biologica: è una prossimità genetica che rende l’uno specchio dell’altro. Ecco perché, prima di somministrare un farmaco a un malato, la legge impone che lo si provi su un organismo completo. E spesso, quel primo “organismo completo”, ha la coda.

La legge e le sue regole

La sperimentazione non è lasciata all’arbitrio dei laboratori o alla crudeltà dei ricercatori (che, in genere, sono i primi a detestare le sofferenze animali). È regolata da una direttiva europea (la 2010/63/UE, recepita in Italia col Decreto 26/2014) che fissa condizioni e limiti rigorosi.

Non si può testare su animali per semplice curiosità accademica. Serve una motivazione forte, tra cui:

  • capirci qualcosa in più sul funzionamento della vita;
  • trovare il bandolo di malattie complesse;
  • valutare l’efficacia o la tossicità di farmaci e alimenti;
  • addestrare chirurghi;
  • perfino tutelare l’ambiente o salvare specie in via di estinzione.

Il principio cardine si riassume nelle tre “R”:

Replace, sostituire quando possibile l’animale con metodi alternativi;

Reduce, usarne il meno possibile;

Refine, evitare ogni sofferenza inutile.

E ogni ricerca deve passare il vaglio di Organismi per il Benessere Animale, il Ministero della Salute, l’Istituto Superiore di Sanità e il Consiglio Superiore di Sanità. Un quadrilatero burocratico che non garantisce infallibilità, ma almeno regola il campo.

La lunga strada delle alternative

Le alternative esistono. E fanno progressi. Colture cellulari, tessuti sintetici, organoidi, modelli al computer che elaborano più dati di quanti un cervello umano potrebbe processare in una vita. Tutto promettente. Ma nessuna di queste soluzioni è ancora abbastanza “viva” da sostituire interamente ciò che accade in un corpo vero.

Per adesso, dunque, la sperimentazione animale resta una necessità scomoda. Un compromesso tra la coscienza e la scienza. Non un’abitudine barbara da eliminare a colpi di slogan, ma un territorio difficile, da abitare con rigore, rispetto e con la consapevolezza che ogni animale usato in laboratorio è un prezzo, non una risorsa.

La verità più scomoda

Forse, il vero interrogativo non è se la sperimentazione animale sia giusta o sbagliata. Ma quanto siamo disposti a guardare in faccia il dolore che comporta curarci. E se davvero siamo pronti a farci carico, da cittadini consapevoli, della domanda che la scienza ci pone ogni giorno: quanto costa, in vite altrui, la nostra salute?

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Last modified: Giugno 29, 2025
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