Lecce (domenica, 22 giugno 2025) — C’erano una volta i “trumpiani della prima ora”, quelli del “mai più guerre”, dell’America First, della chiusura dei confini e delle porte, convinti che ogni bomba lanciata all’estero fosse un dollarone sottratto alla pancia del Midwest.
di Valeria Russo
E ora eccoli qui, improvvisamente riuniti sotto un cielo fosco di droni e detonazioni chirurgiche, costretti a ingoiare – con una certa grazia forzata – l’ennesimo cambio di rotta del loro campione.
Trump ha colpito. Lontano da casa, in Iran. Ha fatto saltare in aria siti nucleari con precisione da manuale, e in barba a decenni di retorica isolazionista ha messo gli stivali, o quantomeno i missili, ben dentro un’altra potenziale guerra in Medio Oriente.
Come reagisce il popolo del MAGA? Un po’ come chi scopre che il proprio eroe mangia i biscotti che detestava pubblicamente: con imbarazzo, con qualche risatina di circostanza, ma soprattutto con la disciplina di chi, ormai, non può più tornare indietro.
C’è chi arranca per salvare la coerenza. Charlie Kirk, il podcaster conservatore con l’aria da boy scout arrabbiato, arringa sui social: “L’Iran ci ha lasciato senza scelta!”. Eccola, la retorica del destino ineluttabile: quando la diplomazia viene meno, tocca armarsi. D’altronde, Trump lo aveva detto – mille volte – che Teheran la bomba non doveva averla. Che poi se davvero ce l’avesse, chi lo sa.
Matt Gaetz, l’ex enfant prodige della destra (poi travolto da scandali tanto carnali quanto dimenticati), si lancia nella comparazione di rito: “È come con Soleimani! Un colpo secco e via. Trump è il pacificatore!”. Pace armata, potremmo dire. Un ossimoro che, come molti altri nel trumpismo, funziona a meraviglia.
Jack Posobiec, noto teorico di ogni complotto possibile, ricicla l’antico mantra: “Trump non vuole cambiare regimi, vuole solo impedire che l’Iran diventi una potenza nucleare”. Parole perfette da far rimbalzare su Truth Social, la creatura digitale del presidente, talmente invasa da commenti e panico da cadere più volte in tilt. Nel frattempo, sui social veri, il trend è già apocalittico: WWIII.
E tra chi svicola e chi barcolla, la premiata ditta dell’ipocrisia politica americana si ricompatta: “non ci piace, ma lo sosteniamo”. Steve Bannon l’aveva previsto, come un veggente a suo agio tra crociate medievali e guerre preventive. L’idea di una nuova guerra li infastidisce, certo. Ma lasciare solo il re? Giammai.
Nel G.O.P., chi aveva azzardato dubbi ora rientra nei ranghi come scolari col capo chino. Tim Sheehy, senatore del Montana, solo due giorni fa parlava delle guerre come di maratone confuse. Oggi si corregge: “Questa non è l’inizio di una guerra, è la fine!”. Il lessico politico, come quello amoroso, ama le contraddizioni.
Restano i democratici. Scomodano la War Powers Resolution del 1973, si indignano per l’assenza del Congresso, chiedono l’impeachment. Alexandria Ocasio-Cortez, armata come sempre di Twitter e indignazione, guida il fronte interno.
Ma tanto Trump è lì, intatto e intoccabile. Un taumaturgo col joystick del Pentagono. Uno che può bombardare dicendo “non amo le bombe”. Il suo elettorato lo ascolta, lo crede, lo segue. Magari con qualche brontolio, ma lo segue. Perché il culto del leader – come sempre – viene prima delle idee, prima dei programmi, e talvolta persino prima della realtà.
Last modified: Giugno 22, 2025